Festival Sconfinando, Sarzana (SP) - 14 luglio 2013
Introduzione al film "Le Figlie come le Madri -
donne lungo la via della seta"
di Lisa Castagna

Francesca Rosati Freeman

 

"Le Figlie come le Madri - donne lungo la via della seta" è un documentario che come già ci annuncia il titolo ci fa arrivare fino in Asia Centrale, fino al Kirjistan, il Kazackstan e l'Usbekistan, in terre antiche, lungo la via della seta, in terre percorse anticamente non solo da Marco Polo e da carovanieri, avventurieri e commercianti, ma all'inizio del secolo scorso anche da viaggiatrici come Alexandra David Neels, che si è spinta fino in Tibet alla ricerca di spiritualità lasciandoci dei racconti di viaggio molto belli e avventurosi, e se pensiamo all'epoca in cui ha viaggiato, in condizioni spesso disagiate e a volte indossando perfino abiti maschili per farsi accettare in luoghi esclusi alle donne, questi racconti e questi viaggi acquistano ancora più valore.

Anche Lisa è partita alla ricerca di qualcosa, è partita alla ricerca del legame che unisce tutte le donne alla terra e le donne fra di loro, un legame che fa sì che le figlie sono come le madri, ma è un legame che va oltre il legame biologico, è un legame ancestrale, un legame dalle radici comuni che ci dovrebbe accomunare invece di separarci: è il legame con la Madre Terra. Che le donne siano biologicamente connesse ai cicli della Terra è evidente basti pensare al mestruo, un ciclo in sincronia con quello della Luna. Questo stesso ciclo che ha segnato l'inizio del Tempo, tanto che i primi calendari erano basati sui cicli mestruali...La storia delle donne è quindi legata alla storia della Madre Terra, grazie all'antica identità della natura come madre nutrice, madre universale. Per questo, Lisa si è avventurata fino a tremila metri di altitudine attraverso varie peripezie, cammini impervi, villaggi difficilmente accessibili. Ed è in queste terre antiche che Lisa ha avuto la conferma di ciò che cercava, per lei è stato come un "ritorno a casa".

"Le figlie come le madri" quindi non ci fa solo viaggiare, ma ci fa riflettere molto sulla relazione fra donne, soprattutto fra madre e figlia e le donne fra di loro.

Il titolo del documentario "Le Figlie come le madri" potrebbe suscitare la reazione di quelle donne, e vi assicuro sono tante, che intrattengono con le proprie madri biologiche una relazione conflittuale o che non si identificano per niente al modello femminile da loro trasmesso.

Spesso nelle mie varie presentazioni sui Moso, una società matrilineare di cui mi occupo già da ben nove anni, mi sono sentita ripetere "Ah, no, con mia madre, tutta la mia vita... mai!" Queste donne non hanno ancora consapevolezza del fatto che gli uomini per emergere hanno dovuto svalorizzare il femminile. Le donne che non hanno ancora fatto un lavoro interiore per ritrovare in se stesse questo antico legame, spesso hanno integrato i valori patriarcali trasmettendo alle figlie un'identità in cui queste ultime non si riconoscono. "Per contenderci l'approvazione dei padri abbiamo odiato le nostre madri ed è così che abbiamo perso il nostro legame con la Madre Terra" (Wicki Noble).

La cultura patriarcale ha relegato il ruolo materno ad una funzione riproduttiva e ha fatto del modello della madre sacrificale lo spettro da cui, legittimamente, le figlie della rivoluzione femminista si sono allontanate per conquistare autonomia e costruire nuovi modelli di identità femminile. Tanto la mancanza di riconoscimento simbolico-culturale della relazione femminile, che l'idealizzazione del ruolo materno hanno, però, oscurato i valori della cura e del rispetto dei viventi e della terra nutrice, che, storicamente, le donne hanno contribuito a mantenere in vita.

Purtroppo il maschilismo è riuscito a separare la cultura dalla natura ed è da questa separazione che è emerso l'ordine patriarcale, un ordine simbolico fondato sulla violenza nei confronti delle differenze tradotte in inferiorità e stabilendo il dominio dell'uomo sulla natura e sulla donna.

L'uomo, afferma Vandana Schiva, fa violenza alla terra come fa violenza alla donna, non riconoscendo nell'una come nell'altra la sua propria origine, ma considerandole come sua proprietà. Essere uomini ha dunque assunto il significato di dissociarsi dal femminile e da quello che esso rappresenta, cioè da tutti i valori considerati essenziali come la cura, il nutrimento, la condivisione, l'ascolto, l'individuare i bisogni dell'altro, la cooperazione, per sostituirli con la competizione e l'aggressività, con la violenza e la distruzione.

Nell'epoca definita "preistoria" questo legame doveva essere molto forte, molti erano i culti della Madre Terra, delle divinità femminili, della fertilità. Il ritrovamento di statuette femminili, che datano di 30 000 anni fa, ne sono la memoria, ma i fondamenti della nostra società attuale ci hanno allontanate da questo legame forte e profondo con la Madre Terra. La società patriarcale ci ha allontanate considerevolmente dal nostro sentire e dalla nostra intuizione che ci teneva in stretto contatto con l'universo e il culto alla madre terra è stato letteralmente sotterrato. Capire meglio questo legame naturale che unisce le donne alla terra, può dare uno stimolo per acquisire più consapevolezza del proprio ruolo.

La ricerca di alcune donne, nella quale si inscrive quella di Lisa e la mia, come delle donne del suo film, va nella direzione di esplorare il legame tra elemento biologico e culturale, rintracciando nel legame con la madre e la Madre terra una forza profonda, per ri-leggere il valore dell'esperienza femminile. Un percorso di esplorazione intima dell'archetipo della madre universale che, a mio avviso, può permettere anche di superare il conflitto con la propria madre biologica, nel riconoscimento della comune appartenenza ad un genere creatore e creativo. Le donne del nostro tempo dovrebbero partire alla ricerca e alla conquista di questa identità perduta, al recupero e alla valorizzazione delle qualità archetipiche del femminile che possano di nuovo legarle alla loro essenza.

I difensori dei diritti della madre terra sono già in azione per costruire un nuovo paradigma della società ispirato ai valori di un tempo antico, ma ancora esistenti nelle società dette matriarcali/matrilineari. Si tratta di un nuovo modo di immaginare la società, che vada oltre il modello di sviluppo androcentrico e androcratico dominante che sta per distruggere il pianeta.

Nelle società matriarcali, che studio ormai da 9 anni, si riconosce nella Natura il principio femminile della creazione e nella donna che è figlia e madre, si riconosce la continuità della funzione creatrice e creativa. Qui il legame con la terra è molto sentito, le donne la ricevono ben curata dalle loro antenate, e a loro volta la curano e la amano come fosse un dono sacro e la trasmettono tale e quale alle generazioni future.

Per nascita siamo le Guardiane della terra, perchè ci nutre, ci permette di vivere, di portare la vita e di amarla... noi siamo la Terra...

Ciò che si fa alla Terra, si fa alle donne / e ciò che si fa alla donne, si fa alla Terra.

 
     
 

Lettera ai Media e a Napolitano sul femminicidio - 26 Marzo 2012

Iole Natoli e Francesca Rosati Freeman

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In data 26.03.2012 è stato inviato agli OdG nazionali e regionali un testo quasi identico a quello che ora segue. Poiché, nell'unirlo al testo della presente petizione indirizzata al Presidente della Repubblica, abbiamo provveduto ad apportarvi qualche integrazione, a nostro avviso proficua, ne replichiamo l'invio agli OdG, oltre ad estenderlo, come già previsto, alle maggiori testate giornalistiche e ad alcune emittenti televisive.

Egregi Direttori, Egregi Giornalisti,

il linguaggio usato troppo frequentemente dai quotidiani, dai periodici e dalle emittenti televisive per cui lavorate richiede delle modifiche radicali, affinché non vi rendiate per leggerezza complici di un costume sociale che, nel considerare le donne come oggetto di dominio maschile e non soggetti di diritti autonomi, ne fa le vittime predestinate di ogni frustrazione di ciascun Ego maschile reazionario.

Ed è per questo, perché Voi possiate non sentirvi complici e noi non rimanere nel chiuso di un mattatoio alimentato continuamente da nuove vittime, che vi diciamo con quella chiarezza che ci deriva dal sapere di voler difendere un diritto inalienabile quale è la vita: NON VOGLIAMO più sentire la parola GELOSIA come MOVENTE, perché la gelosia non è un sentimento originario e spontaneo, ma derivato dall'idea di possesso che è illecita e delittuosa già in sé. NON VOGLIAMO più sentir parlare di DELITTO PASSIONALE: il FEMMINICIDIO va urlato fino a stordire anche i più sordi.

La GELOSIA nella cultura patriarcale è giustificata dalla convinzione erronea e perversa che essa sia inscindibile dall'amore, ma nelle culture matriarcali la si disprezza e la si condanna perché fonte di conflitti e di violenza, irridendo chi si mostra geloso ed emarginandolo. E non ci stiamo riferendo qui alle culture matriarcali del passato, ma a quelle che esistono tuttora e di cui ne citiamo per brevità solo due, la cultura Minangkabau e la cultura Moso, rimandando per ogni approfondimento alle pubblicazioni di Heide Goettner Abendroth, di Peggy Reeves Sanday e di Francesca Rosati Freeman.

Ri-definiamo dunque la parola GELOSIA, che ha molto poco a che fare con l'amore e che maschera pericolosamente il concetto deviante di "appartenenza" dell'altra/o, in una relazione di coppia che toglie al rapporto proprio ciò che rende nobile l'amore: la libera donazione di sé. Donazione che non è contrattabile: che può finire esattamente come ha avuto inizio. Abituiamo gli uomini, fin da bambini, a comprendere il valore della libertà nei rapporti e facciamolo usando in maniera più appropriata il linguaggio corrente. Fatelo anche voi, perché da questa responsabilità collettiva verso le potenziali vittime e i potenziali carnefici NON SIETE ESENTI.

In quale modo? Ci permettiamo, sempre per quel diritto di autodifesa che in quanto donne-vittime sacrificali ci compete, di farvi un piccolo esempio.

Scegliamo un recente articolo apparso su Repubblica.it, ma sia ben chiaro che avremmo potuto sceglierne altrettanto appropriatamente anche un altro di una qualsiasi differente testata. laRepubblicaNAPOLI.it, 24 marzo 2012, cronaca.

Titolo e occhiello:

"Salerno, 17enne accoltellata: è grave confessa l'ex fidanzato della ragazza.

Il giovane di 19 anni l'ha colpita per gelosia mentre l'accompagnava a scuola. Era convinto che fosse innamorata di un altro. Per lui l'accusa di tentato omicidio. La vittima è in prognosi riservata".

Testo

"La furia della gelosia è durata un attimo, quanto è bastato per compiere un gesto dalle conseguenze irreversibili. Ha accoltellato la fidanzatina ma poi ha confessato. E' in carcere il 19enne di Salerno che ieri mattina ha sferrato una coltellata a una 17enne, credendola innamorata di un altro. Storie di ragazzi, risolte come a volte capita agli adulti. Lei è in ospedale, in prognosi riservata ma non rischia la vita".

http://napoli.repubblica.it/.../news/salerno_17enne_accoltellata_grave_fermato_l_ex_fidanzato_la_ragazza/

Già. Un tale accoltella la "fidanzatina" (com'è simpatico questo diminutivo, diminuisce anche l'entità della colpa, rende tutto un giochino da niente!), per "storie di ragazzi, risolte come a volte capita agli adulti" (sic). "Capita" per caso. "Capita", come incontrare per strada un amico e invitarlo a bere assieme un caffè. Insomma, una coltellata è una cosa che "capita" o può capitare a chicchessia. cosa ci sarà mai di strano in tutto questo? Certamente lei è in ospedale, questo è vero, però. via, "non rischia la vita". Sarebbe mai potuta una scenata finire forse meglio di così?

Non siete d'accordo con noi sull'analisi? Trovate forse che stiamo esagerando? Non c'era modo di dare la notizia diversamente? Beh, eccovi, tanto per capirci meglio, un esempio, che se anche dovesse essere imperfetto sarà abbastanza dimostrativo ugualmente.

"Un giovane di 19 anni, con il movente di un preteso possesso, ha accoltellato presumibilmente allo scopo di ucciderla la fidanzata, rea a suo avviso di voler "appartenere" non più a lui ma ad un altro. La vittima, una ragazza appena diciassettenne, è in prognosi riservata e anche se non versa in pericolo di vita rischia, com'è accaduto e purtroppo accade anche ad altre, di rimanere segnata forse per sempre dal trauma.

Starà al giudice stabilire se l'aver utilizzato un coltello a serramanico che aveva portato con sé, determini per l'aggressore l'aggravante della premeditazione, nel tentato omicidio consumato".

A noi sembra che la differenza ci sia e riteniamo che sappiate notarla anche Voi.

Riteniamo cha atti del genere siano l'approdo estremo ma ormai quasi continuo di una mentalità maschilista, di antica derivazione patriarcale, che va esplicitamente contrastata: riserviamo il diritto di proprietà solo agli oggetti, non incoraggiamo, sia pure per leggerezza o distrazione, chi vuole esercitarlo sulle persone. Non è sufficiente, infatti, che in cuor suo il giornalista condanni le aggressioni e le uccisioni - non stiamo affermando che le condivida -, né basta che si rifaccia a formule giudiziarie che andrebbero modificate in altra sede. È necessario che il linguaggio che usa si sottragga agli stereotipi correnti, perché esso influisce, in una direzione o nell'altra, sulle opinioni e i comportamenti di cui scriviamo.

Siamo certe che sarete in grado di considerare la responsabilità che Vi compete nel determinare la corretta percezione di un fenomeno che colpisce direttamente noi, o le nostre figlie, sorelle, nipoti e a volte madri. che potrebbero anche essere madri, sorelle, nipoti o figlie VOSTRE.

Porgiamo dunque i nostri migliori saluti, aspettandoci che poniate in atto il cambiamento di mentalità e di linguaggio che con questa Vi viene richiesto. Ce lo attendiamo senza nessuna riserva, perché VOGLIAMO - e ne abbiamo il diritto - CHE IL FEMMINICIDIO CRESCENTE SIA FERMATO.

Iole Natoli e Francesca Rosati Freeman

***

Illustrissimo Signor Presidente Giorgio Napolitano,

Il bollettino di guerra quotidiano ci comunica sistematicamente l'aggressione di una o più donne in una qualche regione d'Italia per mano di mariti, compagni, fidanzati abbandonati o che si credono tali, aspiranti partner sessuali respinti, i quali, considerando non persona ma proprietà del genere maschile la sfortunata di turno, ritengono di poterla oltraggiare, ferire, violentare, assassinare, con la stessa disinvoltura con cui si rompe o si getta via un oggetto usato, se la possibilità di quell'uso viene meno.

Bollettini di guerra, dicevamo, stilati spesso con una leggerezza colpevole, in cui primeggiano espressioni linguistiche come "GELOSIA", "DELITTO PASSIONALE", "TRADIMENTO", "INNAMORATO RESPINTO" e altri termini che potremmo definire facezie, se non fossero formule devianti, che, pur conseguendo in parte a un linguaggio giudiziario di cui si rende urgente il cambiamento attraverso una legge specifica, contribuiscono al mascheramento dell'IDEA DI POSSESSO, come unica fonte reale di quegli atti. Quale che sia il diritto penale che lo ispira, il linguaggio giornalistico non è un manuale di diritto che consultano gli addetti ai lavori: è un mezzo di comunicazione di massa, che si rivolge all'immaginario collettivo e lo influenza contribuendo a formare l'opinione dei lettori, a dissiparne o consolidarne i pregiudizi più dannosi e frequenti.

Non è possibile che si continui, salvo lodevoli casi abbastanza rari, a ignorare l'inestimabile peso del linguaggio e che si alimenti negli uomini l'idea che aggredire, violentare, assassinare una donna che non li ama più o che rifiuti di cominciare a farlo sia riprovevole, sì, ma "emotivamente comprensibile", sentiero ignobile da cui si giunge a ritenerlo anche lecito. Non è accettabile che chi detiene le leve del linguaggio mediatico si renda, per ignoranza, stupidità o indifferenza, assurdo complice del persistere di una mentalità delittuosa e la trasmetta alle generazioni maschili ancora in crescita.

Noi Le chiediamo di aggiungere la Sua autorevole voce alla nostra. Glielo chiediamo perché sappiamo che sul linguaggio comunicativo ha reclamato pubblica attenzione in passato, sia pure in campi differenti da questo e perché sappiamo di non chiederle interventi che esulino dalle sue competenze istituzionali, che non prevedono istituzioni di leggi o atti di governo. Glielo chiediamo perché Lei rappresenta la popolazione italiana che soffre tutta della situazione attuale. Ne soffrono in prima linea le DONNE, vittime dirette o indirette dell'efferatezza delinquenziale maschile che viene esercitata su madri, figlie, sorelle e amiche, e insieme a loro ne soffrono quegli UOMINI che simili procedure non accettano, che temono anch'essi per il futuro delle donne della propria famiglia o della propria cerchia amicale, che si sentono offesi dal poter essere accomunati nell'immaginario collettivo a nemici del genere femminile. Glielo chiediamo, paradossalmente, anche nell'interesse di coloro che sono già sulla via di divenire aggressori, violentatori, assassini di donne, in cammino verso un FEMMINICIDIO ritenuto possibile, visto che nulla in concreto si fa per arginarlo. La stigmatizzazione necessaria con cui la notizia di un crimine va data non può contenere ambiguità. L'uso di un linguaggio appropriato può contribuire utilmente a scongiurare la banalizzazione del delitto, primo passo verso una sua supposta liceità; il delinquente potenziale deve trovare un muro di disapprovazione palpabile intorno a crimini determinati essenzialmente dalla pretesa di possesso e dal rancore, in modo che un ripensamento sia possibile PRIMA che egli abbia oltrepassato quel limite che, dall'irruente irragionevolezza di un "IO FAREI", lo consegna a un definitivo "IO HO GIÀ FATTO".

Dal Presidente della Repubblica Italiana, alla quale apparteniamo per nascita, lingua e in parte per cultura - in parte in quanto questa esula dai ristretti confini nazionali -, ci aspettiamo un pubblico richiamo agli organi di stampa e di comunicazione mediatica, un'esortazione a quella correttezza di linguaggio che manca e che produce effetti d'incremento su quel fenomeno delinquenziale crescente, che prende il nome, scomodo per molti ma reale, di FEMMINICIDIO.

La ringraziamo della lettura, dell'ascolto interiore e della voce che vorrà levare alta al riguardo e Le porgiamo, Signor Presidente Napolitano, i nostri fiduciosi saluti.

Iole Natoli e Francesca Rosati Freeman

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Risposta del Presidente Giorgio Napolitano,

 
     
 

25 novembre 2011 au Cinéma Voltaire
Ferney-Voltaire

Francesca Rosati Freeman

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L’origine de cette journée remonte à 1960, lorsque les sœurs Mirabal, militantes dominicaines, furent brutalement assassinées sur les ordres du dictateur Trujillo.
Elles avaient participé activement aux actions politiques menées contre le régime du dictateur, mais on sait aussi qu’une des sœurs lui avait refusé des avances. Ce meurtre a eu l’effet de faire soulever le peuple qui a réussi à renverser la dictature une année après.
Les sœurs Mirabal sont devenues le symbole de la lutte et de la résistance d’un peuple, mais aussi de la lutte et de la résistance des femmes.
Il a fallu attendre presque 40 ans pour que en 1999 les Nations Unies fixent la date du 25 novembre comme la journée mondiale de lutte contre la violence faites aux femmes et cela grâce aux pressions des mouvements féministes qui avaient déjà proposé cette date en 1981 et de plusieurs organisations humanitaires.
Le souvenir des sœurs Mirabal, mais également le souvenir de toutes les femmes anonymes, quotidiennement victimes de violence, doivent nous rappeler qu’il faut continuer cette lutte. Comme la violence contre les femmes est un phénomène en expansion j’espère que cette journée ne restera pas unique et que ce sujet sera repris et affronté dans toute sa gravité et dans toutes ses implications, privées et publiques qui y sont liés et cela sans attendre le 25 novembre de l’année prochaine. Eradiquer ce fléau n’est pas une affaire privée, mais l’affaire de nous tous.
À l’occasion de cette journée Patrizia Romito est venue nous parler de la violence faite aux femmes. Elle est professeure de Psychologie sociale à l'Université de Trieste et auteure de nombreux articles et livres dont le dernier "Un silence de mortes. La violence masculine occultée" a été traduit en anglais et en espagnol.

Elle a fait une introduction à propos du sujet du film La Domination Masculine de P. Jean, dont le titre n’attire pas forcément la sympathie de ceux et celles qui croient que cela n’existe pas. L’intention est celle de rendre visible ce que généralement on a tendance à occulter : la violence contre les femmes. Dans ce film le réalisateur s’est principalement inspiré au massacre du 6 décembre 1989 à l’École Polytechnique de Montreal où 14 étudiantes furent tuées par Marc Lépine qui s’est suicidé tout de suite après avoir commis le crime. C’est sûrement un acte de folie, mais surtout un crime de genre. Dans le film l’auteur trace un lien direct qui va du choix des jouets, barbies pour les filles, petites voitures pour les garçons, etc., à la violence faite aux femmes dans le monde des adultes. À travers des images, des clichés et des stéréotypes l’auteur donne une visibilité à ce que d’habitude on ne voit pas et qui pourtant continue d’organiser nos relations homme-femme dans un rapport de domination qui dans certains cas mène à la violence la plus brutale.

 
     
 

Violences masculines envers les femmes :
entretien avec Christine DELPHY et Patrizia ROMITO

Posted on 25 novembre 2011 by Mademoiselle S.

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< Living with the Enemy, Donna Ferrato, introduction Ann Jones, Aperture.


Le 30 octobre dernier, vous avez pu lire sur ce site l'histoire de Caroline, une jeune femme victime de violences conjugales. Au cours de deux rencontres, Caroline, victime de divers sévices allant des viols conjugaux aux coups en passant par des violences psychologiques, m'a longuement raconté le combat qu'elle mène pour sortir de cet enfer, sa peur intense et sa difficulté à se convaincre de sa légitimité à porter plainte contre son ex-compagnon. Le billet a suscité un certain nombre de commentaires - non publiés1.- niant les violences contre les femmes, rejetant la responsabilité sur elles (« Elle aurait dû partir depuis longtemps (...) je ne vais pas les plaindre! »), ou préférant cantonner les violences contre les femmes au-delà du périphérique (« Vous feriez mieux de regarder du côté des quartiers dits "difficiles"»).
La lecture de ces commentaires, outre la colère et le découragement qu'ils ont suscités en moi, m'a donné envie de demander à deux chercheuses féministes, Christine DELPHY, sociologue, et Patrizia ROMITO, psychologue, ce qu'elles pensaient de cette négation par des femmes, des violences masculines envers les femmes.


Les Entrailles de Mademoiselle : Tout d'abord, merci à toutes les deux d'avoir accepté de prendre le temps de me répondre. La première question sera pour Patrizia Romito. Ton ouvrage, Un silence de mortes, traite selon tes propres termes du « massacre de femmes et de petites filles » et des « mécanismes mis en acte par la société pour occulter cette tuerie ' ordinaire ' »2. Pourrais-tu nous expliquer quelles formes principales prennent ces mécanismes d'occultation des violences masculines envers les femmes et quels sont leur sens, leur raison d'être selon toi?


Patrizia Romito: Accepter de voir, de reconnaître la violence masculine est une tache très dure pour tout le monde, et insupportable pour beaucoup d’entre nous. Il ne s’agit pas seulement de se retrouver face à la cruauté humaine, à l’injustice et d'assister à la souffrance des victimes. Reconnaître la violence masculine signifie faire front aux structures mêmes d'une société patriarcale, et remettre en question une idée des relations entre les sexes et de la famille basées sur l'amour et le respect. C’est pour cela que les acteurs sociaux mettent en œuvre des « tactiques » et des « stratégies » d’occultation de ces violences, dont je parle dans mon dernier livre (Romito, 2006).
Les grandes stratégies sont la légitimation de la violence (par exemple le viol conjugal, qui n’existe pas en tant que délit pénal dans beaucoup d’états aux États-Unis, ou les « crimes d’honneur ») et, quand la légitimation n’est plus possible, sa négation. Les tactiques que j’ai décrites sont : l’euphémisation ou les « politiques du langage » (par exemple parler de « violence envers les femmes » plutôt que de « violence masculine ou masculiniste envers les femmes ») ; la déshumanisation des femmes (comme dans la pornographie et dans la prostitution) ; la culpabilisation des victimes, ou des mères des victimes (comme quand on parle des mère « incestueuse », alors que l’inceste a été perpétré par le père) ; la psychologisation et la naturalisation (attribuer les causes des violences aux caractéristiques individuelles - psychologiques ou biologiques - des agresseurs ou des victimes) ; et la séparation (considérer les différentes formes de violences comme des entités distinctes, chacune avec des causes différentes, plutôt que de les voir sur un continuum, ce qui permet justement d’éviter de voir l’ensemble).


"Accepter de voir, de reconnaître la violence masculine est une tache très dure pour tout le monde, et insupportable pour beaucoup d’entre nous."

< Photographie par Donna Ferrato.


À ces tactiques, j’ajoute aujourd’hui le racisme comme instrument pour occulter les violences des hommes de « chez nous », comme l'explique aussi Christine Delphy, et l’attaque aux victimes (Romito, 2010).


LEM: Justement... j'ai le sentiment que les femmes blanches préfèrent voir les violences commises dans ce qu'un-e commentateur-trice3. appelle « les quartiers difficiles », plutôt que dans leurs quartiers, leurs familles, etc. Il s'agit donc bien, là encore, d'une stratégie d'occultation ?


Christine Delphy: Ce ne sont pas seulement les femmes blanches, ce sont tous les Blancs. Ce ne sont pas les femmes blanches qui ont inventé cela, elles n’en ont pas le pouvoir. Pour créer cette croyance il faut de gros moyens, il faut compter politiquement et être à la tête des médias : or qui compte politiquement, qui possède les radios, journaux, qui contrôle les chaînes de télé ? Des hommes blancs. C’est une de leurs réponses au mouvement de libération des années 1970, et spécifiquement aux luttes contre le viol et les violences. Maintenant, et grâce à quelques études arrachées de haute lutte aux institutions de recherche, il existe des chiffres qui disent le nombre de femmes battues, violées, tuées. Pour se défausser de cela, la société blanche - et masculine il va sans dire - a mis l’accent depuis une décennie sur la violence des descendants de l’immigration nord-africaine et subsaharienne. Ils ont aussi créé de toutes pièces un groupe, Ni putes ni soumises, qui est doté de 500 000 euros par an (10 fois plus que la revue Nouvelles Questions féministes n’a obtenu en 30 ans d’existence, 10 à fois plus que SOS Viols femmes information, l’AVFT 4., etc.), et lui ont confié pour mission de se spécialiser sur la violence des « quartiers », une violence qui serait spécifique : due à l’héritage culturel de ses habitants. On a ainsi fait d’une pierre deux coups. D’une part, en disant que la violence contre les femmes existe, oui, mais seulement chez les hommes de culture maghrébine et africaine, on a exonéré la culture française - et plus largement, la culture « blanche » ; à la même époque on a vu apparaître ou réapparaître le mot colonialiste « Français de souche ». D’autre part, on s’est enfin trouvé des raisons honorables de discriminer ces descendants d’immigrés : c’est désormais pour défendre les droits de la femme. A la même époque en effet on a vu réapparaître le mot essentialiste « LA  femme ».


"défendre LA femme, quelle belle occasion d’être à la fois raciste et respectable"


Les Blancs ne veulent ni abandonner les discriminations, ni se dire ouvertement racistes : défendre LA femme, quelle belle occasion d’être à la fois raciste et respectable, comme le dit Saïd Bouamama (Bouamama Saïd, L’affaire du voile, ou la production d’un racisme respectable, publié aux Éditions du Geais Bleu5).
Pourquoi les femmes ont-elles marché dans cette combine? D’abord, toutes les femmes n’ont pas marché : les filles et les sœurs de ces hommes choisis pour servir de boucs émissaires n’ont, sauf quelques exceptions, pas marché. Toutes les femmes blanches n’ont pas marché non plus. Beaucoup cependant se sont ralliées à l’idée que le sexisme ne subsiste que dans des enclaves raciales à l’intérieur d’une France globalement égalitaire et non-sexiste. A la fois par racisme, car bien sûr les femmes peuvent être racistes, comme les racisés peuvent être sexistes ; mais aussi pour se rassurer sur les hommes de leur race, ceux qu’elles côtoient. Car au point où nous en sommes de l’histoire et du détricotage, maille par maille, du féminisme, les femmes aussi, y compris les anciennes féministes, veulent que « leurs » hommes soient exonérés ; car elles n’exigent plus rien d’eux, sauf une adhésion aux idées égalitaires (les idées ne mangent pas de pain), et de pieux mensonges.


LEM: Pour en revenir aux stratégies d'occultation, tu écris, Patrizia, que la négation des violences est la stratégie d'occultation par excellence. J'aimerais revenir sur la négation des violences masculines envers les femmes... par les femmes elles-mêmes. Pourquoi, selon toi, autant de femmes refusent de voir ces violences et/ou s'appliquent avec autant d'énergie à les nier?


Patrizia Romito: Parce que c’est absolument insupportable pour beaucoup d’entre nous d’accepter de voir que nous vivons dans une société qui est encore patriarcale où, malgré toutes les avancées – qui sont indéniables, les femmes - en tant que groupe social - sont encore non seulement discriminées mais aussi dominées par le « groupe hommes ». Accepter de voir ce qui est pourtant une évidence – les violences masculinistes envers les femmes - signifie, pour beaucoup de femmes, ébranler la cohérence d’une vie passée au service des hommes, tant sur le plan matériel qu'émotionnel.
Il faut ajouter que ces réactions de déni ne sont pas typiques des femmes. Les psychologues sociaux ont montré que les groupes opprimés - femmes, noires, autres « minorités »- n’ont qu’une perception très partielle de l’oppression qu’ils/elles subissent. C’est dur pour tous de se savoir dominé, surtout si l’on est isolé et que l'on n’a pas les moyens de concevoir de pouvoir s’en sortir.

< Photographie par Donna Ferrato.

 

Dans le livre, je discute le comportement des ces femmes et ces hommes qui - en tant que travailleurs sociaux, psychologues, magistrat-e-s… - sont du coté des hommes violents plutôt que des femmes ou des enfants victimes des violences. Dans ces cas, joue aussi le désir de se mettre du coté des plus forts, des dominants, même si ces personnes ne voudraient jamais l’admettre. Il faut dire que celle ou celui qui, dans sa profession ou dans ses fonctions, se met du cotés des victimes risque parfois l’isolement, la solitude, ou même les représailles du violent. Il faut se rappeler que les violents peuvent être très organisés, comme dans les cas des lobbies pro-pédophilie, des associations de pères séparés (dont beaucoup sont des hommes violents), ou des « hommes d’affaires » qui gèrent pornographie et prostitution.


LEM: Dans son ouvrage, lorsque Patrizia parle de cette négation des violences contre les femmes, par les femmes, elle évoque notamment le cas de femmes enseignantes, magistrates, avocates ou assistantes sociales, refusant de voir ces violences. Cela rejoint la posture de certaines intellectuelles ou femmes politiques, qui récemment en France, ont fait preuve de beaucoup d'aveuglement face à des affaires de viol présumé... Je voudrais revenir sur un texte absolument magnifique que tu as écrit en 1981, Christine, et qui s'appelle «Le patriarcat, le féminisme et leurs intellectuelles»6. Tu y écris que « être et surtout rester en colère » pour des intellectuelles n'est pas facile mais absolument capital, car cela nous permet de « nous souvenir sans cesse de ce que nous voulons » et du fait « que nous sommes, nous aussi des humiliées et des offensées ». Pourrais-tu nous en dire plus?


Christine Delphy: Comme je l’ai écrit dans ce texte, cette tentation de cesser d’être en colère n’est pas le fait des seules femmes, mais de tous les êtres humains, car il est extrêmement difficile, éprouvant, de ressentir une colère durable ; cela mine l’organisme, désorganise la vie quotidienne et toutes les relations.
Et même garder présente à l’esprit la conscience que l’oppression des femmes nous concerne, et nous concerne directement, est douloureux. La tentation existe toujours de rejeter cette oppression loin de nous. Loin de nous socialement  - de prétendre qu’elle concerne seulement les femmes « défavorisées » ; loin de nous géographiquement - de prétendre qu’elle ne concerne que les femmes afghanes, africaines, chinoises ; historiquement - de prétendre qu’elle concernait nos grand-mères, à la rigueur nos mères, mais que « les choses ont bien changé ». Combien de fois ai-je entendu des femmes dire que « nous sommes bien chanceuses de vivre là où nous vivons, c’est tellement pire ailleurs » ? C’est peut-être pire ailleurs, mais cela ne veut pas dire que c’est bien ici.


"Quoi ! dit Dieu le père, des femmes françaises qui se plaignent alors qu’elles ont le vote, le bac, la pilule et la Redoute?"


Que veulent-elles donc dire ? Que par rapport au sort d’autres femmes, nous n’avons pas de raisons de nous plaindre, donc de lutter ? Or, raisonner ainsi, c’est écouter les jugements du tribunal patriarcal mondial qui apprécie la pertinence de nos revendications, et siège dans la tête de chaque femme et dans la bouche de (presque) chaque homme : « Quoi ! dit Dieu le père, des femmes françaises qui se plaignent alors qu’elles ont le vote, le bac, la pilule et la Redoute ? Qu’en pensez-vous mon fils, Christ, vous qui, ‘né d’une femme’ (Paul, Épître aux Galates), connaissez mieux que moi  la condition humaine et surtout féminine ? » « Eh bien, il est certain qu’on leur a donné le maximum à ces femmes françaises, et que c’est très égoïste de leur part de réclamer plus quand nous avons besoin de tous nos colis, plus ceux des Restos du Cœur, pour les femmes du Darfour ». Et le Christ ajoute en faisant le signe de la main qui l’a rendu célèbre dans le monde entier : « Les femmes doivent apprendre à partager entre elles le peu que nous sommes prêts à leur céder ».
En cette occurrence, c’est, comme d’habitude, le Christ qui dit la Vérité  (il le dit d’ailleurs (qu’il la dit), en précédant toutes ses phrases de « En vérité je vous le dis ») : il dit la vérité de la vision du monde qui sous-tend cette satisfaction des femmes françaises. Cette vision est celle où ce n’est pas aux hommes que les femmes doivent se comparer. Ce serait arrogant. Elles se comparent aux autres femmes. Et ce n’est pas l’ensemble des biens matériels et immatériels du monde qu’elles visent à partager : cela voudrait dire partager entre tous les êtres humains, qui incluent les hommes. Et ça, ce serait insolent (donc punissable): elles veulent seulement partager avec les autres femmes la part des femmes.
Elles estiment avoir déjà reçu une bonne part de cette part, du peu que, comme le dit le Christ, les hommes sont disposés à céder. Elles agissent et raisonnent comme des esclaves qui ne croient pas qu’on puisse abolir l’esclavage ; en tous les cas, ce n’est pas elles qui lutteront pour un idéal qu’elles estiment - justement - exiger trop de sacrifices. Elles préfèrent se contenter d’un aménagement de leurs conditions de détention : ça on peut l’obtenir plus facilement, sans trop d’efforts, sans trop d’accidents, de pertes. Sans trop « se prendre la tête ».
La première perte que l’on subit quand on prend un chemin plus ambitieux, mais plus rude, c’est justement la liberté d’esprit. Liberté très précaire, très encadrée, car les mauvais souvenirs des oppressions subies sont toujours derrière la porte, et les images flash des humiliations de toutes sortes toujours prêtes à ressurgir. On ne peut les tenir à l’écart qu’avec une discipline psychologique sévère (mais juste); les psychanalystes aident aussi, par exemple à transformer le souvenir d’un viol par inceste en fantasme de jeune fille. Mais prendre le chemin de la révolte rend cette fuite impossible : il faut désormais regarder les choses, notre oppression, bien en face, et c’est plus que pénible, c’est carrément douloureux.


"Il faut donc parvenir à ne pas considérer qu’aimer un homme, c’est nécessairement renoncer à l’analyse de classe de notre oppression."

< Photographie par Donna Ferrato.

 

 

Une autre perte, c’est la facilité de relations avec les hommes ; or des hommes, il y en a partout. Dans une vie de travail, ils sont les patrons et les collègues, et même si on ne travaille pas ou plus, dans nos pays, ils occupent tous les métiers du bâtiment (contrairement à ce qui se passe aux USA) avec le résultat qu’on a tout le temps affaire à eux dès qu’on a une panne d’électricité. Dans la vie hors-travail, ils sont là aussi ; ils sont moins là pour les femmes qui n’ont pas de relations intimes avec eux, mais ils ne sont pas absents pour autant, et il faut bien faire avec.
Mais c’est pour les femmes hétérosexuelles que c’est le plus difficile. Beaucoup de femmes ont du mal à concevoir qu’elles ont cherché ou trouvé l’amour dans les rangs de la classe ennemie. Faute de parvenir à faire coexister ces deux propositions, elles abandonnent la seconde. Et dès lors, elles sont reparties pour la « solution individuelle », et elles avalent le mythe que l’amour va leur faire regagner le terrain perdu ; or il ne compense pas le désavantage structurel ; au contraire celui-ci corrompt même la relation prétendument « intime ». Et pendant qu’elles s’adonnent à un jeu de dés pipés, pas de luttes collectives. Il faut donc parvenir à ne pas considérer qu’aimer un homme, c’est nécessairement renoncer à l’analyse de classe de notre oppression.


LEM: Tu écris, Patrizia, que le livre Un Silence de mortes, « a été tout particulièrement » difficile à écrire, en raison du sujet qu'il aborde. Qu'est-ce qui t'a poussée à écrire sur un sujet aussi douloureux?


Patrizia Romito: Eh bien, c’est justement la colère ! Colère face aux violences, aux injustices, et aussi face à la passivité, la lâcheté de beaucoup de personnes qui, dans leurs fonctions, pourraient et devraient intervenir, mais ne le font pas. Parfois je trouve la posture du « témoin » presque plus sordide que celle de celui qui accomplit les violences.


LEM: Restes-tu « en colère » comme l'écrit Christine?


Patrizia Romito: Bien sur que je suis toujours en colère, il y a de très bonnes raisons de l’être. Ceci dit, être tout le temps en colère, c’est fatigant, surtout que cela demande d’agir de façon conséquente, et ces actions ont toujours des coûts importants. Et c’est aussi vrai qu’on aime mieux les gens - et surtout les femmes ! - qui sont souriantes et aimables ! C’est plus dur d’être appréciée et aimée - aussi par les autres femmes – si on est souvent en colère.


"L’éducation des filles, c’est une formation au contraire de la dignité"

< Photographie par Donna Ferrato.

 

 

LEM: Dans un texte intitulé « Violences contre les femmes », publié en 1997 dans NQF et repris dans « Un universalisme si particulier. Féminisme et exception française », tu écris, Christine, que si le « chemin de la connaissance féministe est si long », c'est qu'il « passe par l'acquisition d'une notion de notre propre dignité »7. Tu précises que ce « travail [est] aussi ardu qu'il est paradoxal, puisqu'il s'agit d'aller à contre-courant de notre propre culture ». Reconnaître les violences faites aux femmes, en tant que femme, commencerait donc d'abord par un effort sur nous même pour reconnaître notre propre dignité?


Christine Delphy: Reconnaître notre propre dignité… c’est en effet la condition pour se révolter contre les atteintes à cette dignité. L’éducation des filles, c’est une formation au contraire de la dignité. Mais alors, dira-t-on, si les femmes n’ont pas le sentiment de leur dignité, comment se fait-il qu’elles puissent se sentir blessées, humiliées? C’est le paradoxe de l’esclavage.
Les femmes sont éduquées à intérioriser qu’elles valent moins que les hommes, et qu’on peut leur en demander, leur en faire supporter plus. Mais cette éducation n’est pas cohérente. La valeur d’une personne est donnée par le regard d’autrui, et il y a beaucoup d’autruis dans l’éducation d’une petite personne, et beaucoup de regards différents. Il suffit parfois qu’une personne aime, estime, fasse confiance à une petite fille pour qu’elle mette en cause l’indignité où la société en général veut la plonger ; en tous les cas, pour qu’elle ne se sente pas si indigne que ça, pour qu’elle mette des limites à ce qu’elle peut supporter.
C’est pour cela que, même avec un petit sentiment de sa dignité une femme peut encore se sentir blessée et humiliée, savoir qu’elle est traitée de façon injuste. Mais ce sentiment peut être si petit qu’il est carrément absent : et cela produit des femmes qui acceptent de coucher dans des malles.


"Entre la révolte et le sentiment de sa dignité, il existe une relation dialectique."


Entre la révolte et le sentiment de sa dignité, il existe une relation dialectique. S’il est nécessaire d’avoir ce sentiment pour se révolter, la révolte à son tour accroît, fait grandir ce sentiment, et donc le sentiment d’injustice qui conduit à plus de révolte.
Malheureusement, le patriarcat veille : et à chaque fois que les femmes se révoltent, collectivement, car individuellement ça ne sert à rien, il fomente des manœuvres pour contourner ce sentiment de dignité. Il attaque les points faibles, les failles de la cuirasse (l’armure ?) des femmes (qui sont très peu cuirassées). En visant, par exemple, leur désir de « réussir leur vie amoureuse » ; ou les justes revendications des femmes, ainsi celle du plaisir sexuel dans cette « vie amoureuse » qui nous a été vendue comme le plus grand bien sur terre. Cette revendication a été manipulée par les hommes, canalisée vers la vision dominante de la sexualité (la leur, celle où sexualité égale domination masculine), vers la pornographie, vers le sado-masochisme  revendiqué : le tour est joué, la perte du sentiment de sa dignité est resignifiée comme nécessaire au plaisir sexuel, au point d’ailleurs qu’on ne peut pas distinguer l’une de l’autre. On s’arrange pour que les femmes considèrent le sentiment de leur propre dignité comme un obstacle à une vie sexuelle et/ou amoureuse épanouie.


"Reconnaître et garder le sen­ti­ment de notre pro­pre dig­nité est un com­bat inces­sant "

< Photographie par Donna Ferrato.


Ainsi, reconnaître et garder le sentiment de notre propre dignité est un combat incessant; le mener seule, c’est le mener sans perspective de succès, et dans une solitude morale qui devient de plus en plus pesante, et conduit à l’abandon. Encore une fois, le pire tour qui nous a été joué, c’est de nous faire croire que nous avions « tout gagné » et pouvions « passer à autre chose », à une « vie normale » - sans copines et sans réunions : une vie où nous sommes à nouveau seules, face à des hommes qui eux ne sont jamais seuls, et qui ont un sens aigu de la solidarité.


Les Entrailles de Mademoiselle: Je vous remercie toutes les deux d'avoir pris le temps de répondre à mes questions.


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Biographies de Christine DELPHY et Patrizia ROMITO:


Christine Delphy est l’une des principales intellectuelles féministes françaises. Elle a participé en 1968 à la construction de l'un des groupes fondateurs du Mouvement de libération des femmes.
Auteure de L'ennemi principal (deux tomes), une collection d'essais sur la théorie féministe, Christine Delphy met en avant le mode de production domestique comme fondement de l’exploitation économique des femmes. Elle développe une théorie selon laquelle les hommes exploitent leurs compagnes ou épouses en profitant du travail gratuit de celles-ci (dans le ménage, les soins aux enfants, et dans l’entreprise – artisanale, agricole, ou libérale – du mari). Ainsi la société serait basée sur deux dynamiques parallèles - un mode de production capitaliste et un mode de production patriarcal (ou domestique). L’exploitation domestique des femmes entraîne leur surexploitation sur le marché du travail capitaliste. Cette théorie a eu une influence politique très considérable, notamment dans les milieux de militantes féministes.
Elle a co-fondé avec Simone de Beauvoir les revues Questions féministes et Nouvelles Questions Féministes (qu'elle codirige toujours actuellement). Elle a créé le terme féminisme matérialiste pour dénommer une démarche anti-naturaliste, anti-essentialiste; à ce courant on rattache Monique Wittig, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet, et bien d’autres féministes qui dénoncent le différentialisme.
En 2004 elle fait partie de la minorité des féministes qui s'opposent à la loi excluant de l’école les élèves qui portent le foulard musulman. Elle a écrit plusieurs articles sur le sujet, (pour la plupart réédités dans Classer, dominer, dont "Race, caste et genre en France », et « Antisexisme ou anti-racisme : un faux dilemme »).


Bibliographie partielle:


Un troussage de domestique (dir.), Collection "Nouvelles Questions féministes", Syllepse, 2011.
Un universalisme si particulier, Collection "Nouvelles Questions féministes", Syllepse, 2010.
Classer, dominer, Qui sont les "autres"?, La Fabrique, 2008.
Avec Sylvie Chaperon (dir.), Le Cinquantenaire du Deuxième Sexe, Collection "Nouvelles Questions féministes", Syllepse, 2002.
L’Ennemi principal 1, Économie politique du patriarcat, Collection "Nouvelles Questions féministes", Syllepse, 1998.
L’Ennemi principal 2, Penser le genre, Collection "Nouvelles Questions féministes", Syllepse, 2001.


Patrizia ROMITO est Professeure de psychologie sociale à l’université de Trieste. Elle a publié en français : La Naissance du premier enfant. Étude psychosociale de l'expérience de la maternité et de la dépression post-partum, Lausanne, Delachaux & Niestlé, 1990 et Un silence de mortes. La violence masculine occultée. Paris, Editions Syllepse, 2006 (également en italien, anglais et espagnol), ainsi que plusieurs articles, dont pour les plus récents :

  • Romito, P. (2011) Les violences conjugales post-séparation et le devenir des femmes et des enfants. Revue Internationale de l’Education Familiale, 29:87-195.
  • Romito, P. (2010) Du silence au bruit: l’occultation des violences masculines contre les femmes. Pp 144-154 in Luttes, oppression, rapports sociaux de sexe. Nouveaux Cahiers du Socialisme, n. 4, Automne 2010.
  • Romito, P. & Crisma, M. (2009) Les violences masculines occultées: Le syndrome d’aliénation parentale.  Revue EMPAN, 73, 31-39.
  • Romito, P. (2007) Recherches qualitatives et quantitatives dans l’étude des violences envers les femmes. Pp 59-73 dans Chetcuti, N. e Jaspard, M. (a cura di) Violences envers les femmes. L’Harmattan, Paris.
  • Romito, P. (2003) Les attaques contre les enquêtes sur les violences envers les femmes ou qui a peur des chiffres sur les violences commises par les hommes. Nouvelles Questions Féministes, 22(3), 82-87.

pubblicato il 25-11-2011 sul sito
http://blog.entrailles.fr/2011/11/violences-masculines-envers-les-femmes-entretien-avec-christine-delphy-et-patrizia-romito/

 
     
 

Pubblicato su “Le dauphiné libéré” del 10 Marzo 2011

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Journée Internationale de la Femme - 100 -ème anniversaire - 8 mars 2011

di Francesca Rosati Freeman

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Je me demande si aujourd'hui le 8 mars 2011 peut vraiment être considéré une fête pour les femmes en sachant qu'après un siècle de luttes la plupart des problèmes liés aux femmes restent non résolus : il y a avant tout la violence contre les femmes qui ne connaît pas de limites, ni géographiques, ni culturelles, ni de classe sociale, les statistiques sont claires à ce sujet : en Europe tous les trois jours une femme meurt des coups et blessures de son mari ou de son compagnon ou de son ex. et j'ajouterai même de son père ou de son frère ou de son oncle. Les abus sexuels et les viols sont à l'ordre du jour. Les inégalités et les discriminations dans le domaine du travail, la peu nombreuse représentation des femmes au niveau politique, des congés maternité mal payés ou pas payés du tout et encore la manière indécente dont le corps de la femme est exploité, dans la publicité, dans les revues dites féminines et même dans les journaux soi disant de gauche où ils nous montrent un modèle de femme au silicone et refait au photoshop qui n'existe pas dans la réalité : tout cela nous place dans un état d'infériorité et d'exploitation par rapport à l'autre sexe qui nous blesse et nous humilie profondément.


S'il est un devoir de rappeler les différents rôles que les femmes ont eus dans les luttes du passé, en s'exposant en première personne, parfois au prix de leur vie, il est aussi très important de dire non à toutes ces injustices et violences que trop souvent subissent les femmes du monde entier. Mais aujourd'hui toute ma solidarité va aux femmes arabes révoltées, qui ont réussi à casser le stéréotype de l'image de la femme voilée, silencieuse et irrémédiablement opprimée. Des paroles, des gestes et des visages de ces femmes en révolte nous sont parvenues copieuses surtout de l'Egypte. Eh bien aujourd'hui 8 mars ces mêmes femmes, voilées et non, féministes historiques et féministes islamiques, qui auraient voulu répondre massivement, ont été empêchées par leur mari ou leur père ou frère de répondre à l'appel de « 1 million pour la lutte des femmes » pour dénoncer le nouveau gouvernement égyptien de les avoir déjà écartées des instances pour réformer la Constitution et d'avoir déjà oublié leur rôle actif dans la révolution.

En Italie tous ces hommes qui nous gouvernent et qui associent pouvoir et sexisme ne peuvent plus nous représenter, les femmes italiennes ont répondu massivement le 13 février dans 230 communes et dans beaucoup de villes à l'étranger à l'appel de « se non ora quando? » elles ont crié stop à la dictature du machisme, stop à la dégradation des femmes objets, stop à la précarité du travail et à la violence.

Mais aujourd'hui je ne revendique même pas, aujourd'hui le temps est venu pour les femmes de prendre la relève, d'indiquer, elles, la voie à suivre et pas à la demander. Si on laisse tout le pouvoir à ceux qui nous gouvernent, dont la grande majorité est composée d'hommes, on nous laissera toujours dans un état d'infériorité et d'exploitation, mais cela ne suffit pas. Il ne suffit pas que les femmes partagent le pouvoir et qu'elles soient représentées de façon égale dans le parlement et dans tous les postes clé des organismes administratifs. Le véritable ennemi des femmes est le système patriarcal soutenu par une économie globale.

Commençons par éduquer nos garçons depuis la naissance à respecter les femmes, dénonçons tout acte de violence, ayons le courage de rejeter les valeurs patriarcales véhiculées par notre société actuelle, et non pas pour dominer les hommes, mais pour coopérer au même niveau pour que tout le monde trouve sa place dans une société sans violence, sans discrimination, sans domination d'un sexe sur l'autre ni exploitation de toute sorte.

C'est pour toutes ces raisons que je pense que cette journée devrait être une occasion de réflexion.plutôt que de fête et de célébration.

 
     
 

Se non ora quando? - 13 febbraio 2011

di Francesca Rosati Freeman

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Se non ora, quando ? È l'appello a cui, domenica 13 febbraio 2011, ha risposto più di un milione di donne e alcuni uomini che ritengono che anche la dignità maschile va ridiscussa. Hanno manifestato in 230 comuni italiani e in molte città all'estero: Parigi, Londra, Bruxelles, Madrid, New York, Boston, Tokio, Seoul, etc..., ma anche Zurigo e Ginevra.

Le donne hanno gridato basta alla dittatura del machismo, basta alla mercificazione dei corpi femminili che media e potenti vogliono siliconati, basta alla precarietà del lavoro e alla violenza, basta alla degradazione delle donne usate come oggetto, basta alla veicolazione dei valori patriarcali, ma basta anche alla degradazione socio-politico-culturale del paese. Tutte e tutti hanno chiesto le dimissioni del primo ministro. Dunque una manifestazione all'insegna dell'indignazione delle donne e dell'antiberlusconismo.

A Ginevra più di 150 persone, italiane/i per la maggior parte, si sono radunate nella piazza delle Nazioni Unite cantando "Sebben che siamo donne..." , mostrando cartelli con gli slogan più svariati, da "Berlusconi, Dimissioni!" a "Pouvoir aux femmes" "Meno festini, più Levi-Montalcini" Stop Pornocracy" "ORA BASTA!" "Governo mafioso fascista immorale, basta! "etc... e dopo un minuto di silenzio alla domanda "Se non ora, quando"? in coro tutti hanno risposto "Adesso".

Se la situazione politica italiana ha una sua specificità, il patriarcato purtroppo non è solo italiano e a questo appello, all'estero, avrebbero potuto rispondere anche donne indignate non italiane.

Prima della manifestazione un dibattito molto acceso stava dividendo le donne: scendere in piazza per fare le moraliste e giudicare quelle che vendono il proprio corpo per far carriera o per difendere la propria dignità e avere la libertà di scegliere, essere noi stesse come lo desideriamo? Il mondo delle donne si stava dividendo in sante e puttane, ma è prevalso il buon senso e ognuna di noi è scesa in piazza con la propria soggettività. "Ognuna è andata con tutti i motivi di indignazione che più o meno consapevolmente ha accumulato - dice Lea Melandri - : dalla precarietà esistenziale e lavorativa al peso delle responsabilità famigliari, dalle discriminazioni nella sfera pubblica alla violenza di cui sono ancora vittime nel privato, dall'esaltazione dei loro corpi alla mortificazione della loro intelligenza".

In Italia le donne sono puttane se vendono il loro corpo per strada e offendono il decoro urbano, diventano invece escort se si recano in villa accompagnate dagli autisti in limousine blu, per poi diventare donne in carriera con incarichi ministeriali o nello spettacolo. Il degrado sociale poi arriva al suo culmine quando sono i genitori stessi ad affidare le proprie figlie ai potenti e non per bisogno, ma per sistemarsi più facilmente e agevolmente nella società.

Questi uomini che ci governano, che associano potere e sessismo e queste donne arrivate al potere mettendosi in vendita, non possono più rappresentarci! "Ci troviamo in un disastro, ci dice Alessandra Bocchetti - una delle più grandi figure del femminismo italiano, nel suo discorso alla manifestazione del 13 febbraio a Roma - ma di questo disastro non siamo del tutto innocenti neanche noi. [.. ]. Siamo state finora troppo timide, troppo fiduciose, troppo conniventi, troppo deleganti, troppo ubbidienti!" "Adesso bisogna che siano le donne a dare la via da seguire e non a chiederla, quelle donne che non escono fuori dai concorsi di bellezza, nè dai letti dei potenti".

Ma le femministe, storiche e non, dicono basta già da mezzo secolo. Lo slogan "Né puttane, né madonne, siamo solo donne", che ho rispolverato per la manifestazione di domenica scorsa, data di almeno 40 anni ed è pertanto attualissimo. Forse adesso il rapporto fra politica e sessismo è diventato più chiaro, i danni del patriarcato sono ancora più evidenti, più coscienze si sono risvegliate...e spero proprio che una giornata così imponente come quella di domenica non si risolva in una bolla di sapone.

 
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